Saggi
Educazione al Suicidio
Realtà, metodi e drammi
di ieri e di oggi
Realtà, metodi e drammi
di ieri e di oggi
Che cos’è il suicidio? Perché ci fa così paura tanto da essere divenuto un vero e proprio tabù nelle nostre società? Eppure, come illustra con dovizia di particolari Vincenzo Rampolla nel suo saggio, è tra le cause di morte principali in molti paesi del mondo. Giovani, uomini e donne, anziani, persone ricche o con problemi economici, etero od omosessuali, artisti o gente poco istruita, nessuna delle grandi categorie in cui si divide la società sembra esente da questa pulsione oscura verso la morte e l’annullamento di sé. Naturalmente ci sono delle differenze di ordine culturale e sociale, come già Durkheim aveva teorizzato nel suo grande studio sul suicidio nella seconda metà dell’Ottocento.
Vincenzo Rampolla, studioso appassionato e lucido, ha raccolto da fonti attendibili e diversificate (Ministeri, Osservatori internazionali e locali, Forze dell’Ordine, Associazioni) una mole impressionante di dati sul tema del suicidio, e in questo saggio, ricorrendo anche all’uso di tabelle e grafici, mette nero su bianco tutto il suo lavoro durato anni (e aggiornato nelle cifre al 2015).
Lungi dall’essere una guida al suicidio, il presente saggio educa a comprendere fino in fondo il fenomeno, con analisi sul piano nazionale e internazionale e sfatando alcuni luoghi comuni, come quello che vedrebbe tutti i potenziali suicidi affetti da disturbi psichici. Un argomento così importante come il suicidio, sembra suggerire la lettura di questo libro, non può essere tenuto fuori dal pubblico dibattito e anche dall’azione delle istituzioni politiche, al fine anche di capire le strategie da mettere in campo per prevenirlo. Ma prima di studiare degli interventi bisogna sempre conoscere, ed Educazione al suicidio è certamente un’utile base di partenza, grazie al suo approccio scientifico e al contempo divulgativo.
Vincenzo Rampolla, studioso appassionato e lucido, ha raccolto da fonti attendibili e diversificate (Ministeri, Osservatori internazionali e locali, Forze dell’Ordine, Associazioni) una mole impressionante di dati sul tema del suicidio, e in questo saggio, ricorrendo anche all’uso di tabelle e grafici, mette nero su bianco tutto il suo lavoro durato anni (e aggiornato nelle cifre al 2015).
Lungi dall’essere una guida al suicidio, il presente saggio educa a comprendere fino in fondo il fenomeno, con analisi sul piano nazionale e internazionale e sfatando alcuni luoghi comuni, come quello che vedrebbe tutti i potenziali suicidi affetti da disturbi psichici. Un argomento così importante come il suicidio, sembra suggerire la lettura di questo libro, non può essere tenuto fuori dal pubblico dibattito e anche dall’azione delle istituzioni politiche, al fine anche di capire le strategie da mettere in campo per prevenirlo. Ma prima di studiare degli interventi bisogna sempre conoscere, ed Educazione al suicidio è certamente un’utile base di partenza, grazie al suo approccio scientifico e al contempo divulgativo.
Indice:
Alcuni estratti del libro:
L’inizio
Perché quel titolo? Perché Educazione al suicidio?
Perché non Guida al suicidio oppure Manuale perfetto del suicidio, meglio ancora Suicidio fai da te o Suicidio per tutti?
Quel titolo mi sta bene. Non deturpa suicidio, parola che resta nuda, chiara e univoca. Come deve essere: non vuole aggettivi insolenti per essere capita. Parola che non suscita dubbi o confronti, perché suicidio è morte e di lei nessuno chiede: cos’è? Tutti lo sanno, nessuno ne parla né vuole parlarne: ha paura, paura di chi ti accompagna dalla nascita, ti segue e non la vedi, ti cerca quando non la pensi. Questa forse è l’angoscia dell’uomo, la sua incapacità di pensare il suicidio insieme alla morte: pensa due cose distinte. Sono invece uguali, gemelle: una ti cerca, l’altra la cerchi. E poi quella parola si accoppia con Educazione, termine antico, nobile, calpestato e dimenticato. Ha origine latina: ex-ducere, estrarre, guidare. Che cosa, da dove? Tirare fuori ciò che abbiamo dentro e dargli il lievito della ragione, farlo crescere: imparare a pensare. Pensare al suicidio.
Di rado l’uomo pensa la morte come amica, sorella morte ha detto il santo Francesco, né mai pensa il suicidio come un compagno di viaggio, frate suicidio. Saper pensare la morte, saper capire quando è vicina, sapere agire al suo arrivo, qualunque sia la forma: essere educati alla morte, questo è il castigo. Penso la morte costantemente, pensiero dolce e sereno. Penso dopo il suicidio, non come agire, come fatto in sé con la sua forza. Si parla di morte e di suicidio solo davanti al parente defunto o al giovane che giace, non se ne parla a tavola o tra amici, come si parla di ragazze e di stadi. È vietato, è abietto e triviale. Se ne parla solo se c’è il cadavere, giovane o vecchio che sia. Manca il coraggio di aprire il dialogo. Vince il rifiuto, si è spenta la voglia.
Per questo taluni mi evitano. Sei matto dicono, sei vecchio, sei malato. È vero, matto, vecchio, malato ma ci penso da quando a vent’anni sul letto di morte ho abbracciato mio padre appassito dal male e a sedici è stata la nonna inabile, a quindici la compagna di scuola suicida per stupro di gruppo.
Ci penso da quando a nove anni una mattina di gennaio, nel cortile della casa in fondo al vicolo ai confini del ghetto, capobanda di disperati del dopoguerra, ho visto pendere dalla ringhiera del balcone del primo piano l’operaio dalla tuta blu, quello che tutte le sere rientrava in bici. Fischiettava e pedalava felice. Si chiamava Toni e lui immobile penzolava a due metri da terra e la neve gli s’incollava al cranio. Noi lo guardavamo attoniti e ignari tacevamo e crudeli allungavamo le mani ai fondi delle brache blu per vederlo oscillare.
Perché quel titolo? Perché Educazione al suicidio?
Perché non Guida al suicidio oppure Manuale perfetto del suicidio, meglio ancora Suicidio fai da te o Suicidio per tutti?
Quel titolo mi sta bene. Non deturpa suicidio, parola che resta nuda, chiara e univoca. Come deve essere: non vuole aggettivi insolenti per essere capita. Parola che non suscita dubbi o confronti, perché suicidio è morte e di lei nessuno chiede: cos’è? Tutti lo sanno, nessuno ne parla né vuole parlarne: ha paura, paura di chi ti accompagna dalla nascita, ti segue e non la vedi, ti cerca quando non la pensi. Questa forse è l’angoscia dell’uomo, la sua incapacità di pensare il suicidio insieme alla morte: pensa due cose distinte. Sono invece uguali, gemelle: una ti cerca, l’altra la cerchi. E poi quella parola si accoppia con Educazione, termine antico, nobile, calpestato e dimenticato. Ha origine latina: ex-ducere, estrarre, guidare. Che cosa, da dove? Tirare fuori ciò che abbiamo dentro e dargli il lievito della ragione, farlo crescere: imparare a pensare. Pensare al suicidio.
Di rado l’uomo pensa la morte come amica, sorella morte ha detto il santo Francesco, né mai pensa il suicidio come un compagno di viaggio, frate suicidio. Saper pensare la morte, saper capire quando è vicina, sapere agire al suo arrivo, qualunque sia la forma: essere educati alla morte, questo è il castigo. Penso la morte costantemente, pensiero dolce e sereno. Penso dopo il suicidio, non come agire, come fatto in sé con la sua forza. Si parla di morte e di suicidio solo davanti al parente defunto o al giovane che giace, non se ne parla a tavola o tra amici, come si parla di ragazze e di stadi. È vietato, è abietto e triviale. Se ne parla solo se c’è il cadavere, giovane o vecchio che sia. Manca il coraggio di aprire il dialogo. Vince il rifiuto, si è spenta la voglia.
Per questo taluni mi evitano. Sei matto dicono, sei vecchio, sei malato. È vero, matto, vecchio, malato ma ci penso da quando a vent’anni sul letto di morte ho abbracciato mio padre appassito dal male e a sedici è stata la nonna inabile, a quindici la compagna di scuola suicida per stupro di gruppo.
Ci penso da quando a nove anni una mattina di gennaio, nel cortile della casa in fondo al vicolo ai confini del ghetto, capobanda di disperati del dopoguerra, ho visto pendere dalla ringhiera del balcone del primo piano l’operaio dalla tuta blu, quello che tutte le sere rientrava in bici. Fischiettava e pedalava felice. Si chiamava Toni e lui immobile penzolava a due metri da terra e la neve gli s’incollava al cranio. Noi lo guardavamo attoniti e ignari tacevamo e crudeli allungavamo le mani ai fondi delle brache blu per vederlo oscillare.
Suicidi di personaggi illustri
Tutti possono arrivare al suicidio: giovani, vecchi, donne e malati, ladri e barboni. Ci sono anche i ricchi, le spie e i padroni. Ognuno con le sue ragioni, le sue ansie e le sue storie. Le statistiche ci danno i dati precisi, per anno, mese, sesso, causa e mestiere. Qui tutte le cifre si ispirano alle fonti ufficiali: Polizia, Carabinieri, ISTAT, OMS, OCSE, AAS (American Association of Suicidology) e altri organismi europei e internazionali. C’è anche l’Institute for Health Metrics e l’Oxford Centre for Suicides Research e altri centri elencati nelle quindici pagine della Bibliografia. I numeri servono per illustrare il fenomeno, ma in pratica non dicono nulla: conta sapere chi si toglie la vita, come ciò avviene e come rimediare. Il perché non fa parte dell’analisi. Cesare Pavese aveva scritto in proposito: Ma perché prendersela tanto coi poveri suicidi? Li trattate da stupidi, da imbecilli, da vili, come se ciascuno di essi non avesse le sue ragioni terribili e immense. […] Ebbene io vi dico che il suicida è un martire, martire tanto degno quanto i martiri di tutte le religioni. E per religione, intendo ogni ardore dell’anima umana, Dio o Idee che sono poi altrettanto Iddii. Se martire è colui che testimonia con le sue sofferenze e il suo sangue la sincerità del suo pensiero e dei suoi sentimenti, la sincerità della sua anima non più volgare, perché non ha da essere un martire anche un suicida che, piuttosto di mentire (a se stesso e quindi agli altri), di costringersi con uno sforzo che sente inutile, a un assestamento diverso che tanto sente inutile e non suo, preferisce uccidersi, darsi quel grande dolore, il supremo di tutti i dolori? Pavese era scrittore e ha posto fine ai suoi giorni in una stanza d’albergo di Torino, il 26 agosto 1950.
Quanti illustri personaggi come lui, divi del cinema, scienziati, scrittori e filosofi sono passati alla storia con il suicidio? C’è differenza se a togliersi la vita è una persona qualunque, oppure un uomo illustre, che si pensa, si crede, si immagina non dovrebbe avere alcun motivo per farlo, se non per cause gravi e particolari? Davanti al suicidio l’uomo illustre non è forse tale e quale a l’uomo qualunque? Togliersi la vita era ritenuto dagli antichi Greci e Romani un gesto eroico. Socrate è tuttora ricordato e ammirato per il coraggio e la libertà di avere assunto la cicuta e con lui Democrito, Catone l’Uticense, Diogene di Sinope, Zenone, Lucrezio e Seneca. Questo perché nella Grecia antica, come più tardi nella Roma repubblicana e imperiale, le posizioni filosofiche sulla legittimità del suicidio erano ben differenziate rendendo il suicidio una pratica abbastanza diffusa e abitualmente accettata; basta pensare ai numerosi casi di suicidio che si ritrovano nei miti greci (Giocasta, Antigone, Eracle, Deianira, Didone, Fedra), nella mitologia (Aiace), nella Bibbia (Abimelech, Saul, Sansone, Giuda) e nella storia antica (Sofonisba, Annibale, Attilio Regolo, Bruto, Cassio,Marco Antonio, Nerone).
Tutti possono arrivare al suicidio: giovani, vecchi, donne e malati, ladri e barboni. Ci sono anche i ricchi, le spie e i padroni. Ognuno con le sue ragioni, le sue ansie e le sue storie. Le statistiche ci danno i dati precisi, per anno, mese, sesso, causa e mestiere. Qui tutte le cifre si ispirano alle fonti ufficiali: Polizia, Carabinieri, ISTAT, OMS, OCSE, AAS (American Association of Suicidology) e altri organismi europei e internazionali. C’è anche l’Institute for Health Metrics e l’Oxford Centre for Suicides Research e altri centri elencati nelle quindici pagine della Bibliografia. I numeri servono per illustrare il fenomeno, ma in pratica non dicono nulla: conta sapere chi si toglie la vita, come ciò avviene e come rimediare. Il perché non fa parte dell’analisi. Cesare Pavese aveva scritto in proposito: Ma perché prendersela tanto coi poveri suicidi? Li trattate da stupidi, da imbecilli, da vili, come se ciascuno di essi non avesse le sue ragioni terribili e immense. […] Ebbene io vi dico che il suicida è un martire, martire tanto degno quanto i martiri di tutte le religioni. E per religione, intendo ogni ardore dell’anima umana, Dio o Idee che sono poi altrettanto Iddii. Se martire è colui che testimonia con le sue sofferenze e il suo sangue la sincerità del suo pensiero e dei suoi sentimenti, la sincerità della sua anima non più volgare, perché non ha da essere un martire anche un suicida che, piuttosto di mentire (a se stesso e quindi agli altri), di costringersi con uno sforzo che sente inutile, a un assestamento diverso che tanto sente inutile e non suo, preferisce uccidersi, darsi quel grande dolore, il supremo di tutti i dolori? Pavese era scrittore e ha posto fine ai suoi giorni in una stanza d’albergo di Torino, il 26 agosto 1950.
Quanti illustri personaggi come lui, divi del cinema, scienziati, scrittori e filosofi sono passati alla storia con il suicidio? C’è differenza se a togliersi la vita è una persona qualunque, oppure un uomo illustre, che si pensa, si crede, si immagina non dovrebbe avere alcun motivo per farlo, se non per cause gravi e particolari? Davanti al suicidio l’uomo illustre non è forse tale e quale a l’uomo qualunque? Togliersi la vita era ritenuto dagli antichi Greci e Romani un gesto eroico. Socrate è tuttora ricordato e ammirato per il coraggio e la libertà di avere assunto la cicuta e con lui Democrito, Catone l’Uticense, Diogene di Sinope, Zenone, Lucrezio e Seneca. Questo perché nella Grecia antica, come più tardi nella Roma repubblicana e imperiale, le posizioni filosofiche sulla legittimità del suicidio erano ben differenziate rendendo il suicidio una pratica abbastanza diffusa e abitualmente accettata; basta pensare ai numerosi casi di suicidio che si ritrovano nei miti greci (Giocasta, Antigone, Eracle, Deianira, Didone, Fedra), nella mitologia (Aiace), nella Bibbia (Abimelech, Saul, Sansone, Giuda) e nella storia antica (Sofonisba, Annibale, Attilio Regolo, Bruto, Cassio,Marco Antonio, Nerone).
Chi mi aiuta ?
Non sei solo
Recentemente l’OMS ha dichiarato: Nei prossimi 12 mesi si stima che oltre 20 milioni di persone tenteranno il suicidio. Più di 1 milione avrà successo. Molti altri finiranno in ospedale, bendati o intubati. Qualcuno tirerà un sospiro di sollievo, pronto a ricominciare. Altri, vittime dell’insuccesso, continueranno la loro vita con problemi di salute, nuovi e non previsti, amari e permanenti, i danni cerebrali per primi. Eppure tutti avevano deciso di farla finita con la vita. Gli esperti dicono che nel suicidio bisogna tentare 16 volte prima di avere la certezza di farcela. Non tutti concordano su quel numero e indicano valori tra 8 e 12. Ognuno dice la sua. Anche l’ISTAT si pronuncia e propone 6 tentativi. Sono gli esperti quelli che rovinano il mondo, i maghi delle previsioni, i guru della statistiche. Giocano sui numeri della morte. Negli ultimi 50 anni il tasso di suicidi è aumentato di oltre il 50%. Che differenza farebbe al pianeta, se 20 milioni di persone all’anno, solo per la metà del tempo che avevano trascorso a pianificare la loro morte facessero qualcosa di diverso? Come portarle a questo passo? Come pensare di farlo? Penso a tutte le persone che in questo preciso istante prendono in considerazione il suicidio. Le guardo. Le osservo. Le studio. Vedo la loro voglia di farla finita. Chi sono? Esseri che forse domani non ci saranno più? No. Guerrieri nella loro impari battaglia per la morte, sconfitti dalla vita, doloranti e coperti di ferite, impotenti e rovinati. Immagino il loro risveglio in un letto, condannati a dipendere dagli altri. Mi spaventa la loro leggerezza: per morire hanno scelto modo e tempo sbagliati. Perché così fragili e incapaci di reagire ai loro problemi? Mi tormenta che siano giovani e soli e lasciati a se stessi. Qualcuno li ha ascoltati ed è riuscito a capirli? Mi turba vederli uomini maturi, travolti dai propri errori e dagli inganni. Mi angoscia saperle madri gravide e disperate. Spavento. Disperazione. Angoscia. Mi sgomenta che abbiano cercato da soli la soluzione nell’alcol o nella droga. Contro la disperazione. Contro l’oppressione. Da soli. Soli con se stessi. Senza la forza di pensare. Sapere pensare. Non essere più soli. Avere se stessi come amico e compagno che ascolta e parla. Sapere pensare a se stessi prima di cercare una soluzione altrove. Non esiste soluzione senza averla pensata. Cercata. Voluta. Per questo penso con tristezza. Viviamo in un mondo che spinge milioni di persone a immaginare di volerlo lasciare, pronte a decidere di lasciarlo. Ora forse è più chiaro l’alito che mi ha spinto a scrivere queste pagine: molte persone, troppe, desiderano la morte, ma ne ignorano il significato. Non ci pensano, non ci ragionano sopra. Con gli altri non hanno mai discusso di morte. Hanno paura. La morte è respinta. Eppure la cercano. Si annegano nella passione e nella disperazione, nell’errore e nella paura. Paura di vivere. Ossessione. Paura del problema. Problema che non c’è. Fantasma. Idea. Problema degli altri, divenuto mio. Mi addolora l’ultimo post lanciato su Facebook da E., 15 anni, classe seconda all’Istituto Alberghiero; scrivo mentre cade la pioggia di maggio e lei si è buttata in Arno, il 9 novembre 2014. C’è tempo fino a stasera, woo, fino a stasera e basta. No, ’sta cosa ha un senso, davvero, non ho bevuto né niente e comunque domani si vedranno le differenze… lol (la risata nel gergo internet). I suoi pensieri svelati dai post dei giorni precedenti. Ancora non ho capito che cazzo ci sto a fare io qui, scrive il 5 novembre e il 2 novembre: Tutte le volte che il mio cuore fa certi scherzi, cosa? Vuoi battere per qualcuno? È il momento di chiuderlo in gabbia fino alla fine dei miei giorni. E. non è sola. Parla con se stessa, ha scoperto di esistere. Parla al suo cuore: Batti per qualcuno? Che scherzo è, meglio metterti in gabbia. E. vuole parlare al suo cuore. È incapace. È acerba per saperlo fare. Nessuno ancora gliel’ha insegnato. Respinge il dialogo. Respinge il cuore e i sentimenti e la delusione che le bruciano dentro. Chiude il cuore in gabbia, fino alla fine dei suoi giorni. Magico istante di lucidità. Breve ma prezioso momento, in cui la luce della ragione rischiara appena il buio che l’avvolge. Barlume. Accenno. Indizio. Attimo da prendere al volo, in cui decidere in un tempo infinitesimo, in una frazione a lei sconosciuta se adagiarsi sul fondale e confondersi con le acque e attendere la morte dell’anima o afferrarlo e trasformarlo in una misteriosa energia che le ridoni il respiro. Respiro vitale. Aria. Acqua. Fuoco. Imprigionato, il cuore non ha saputo dirle che era lei, che si umiliava, si mortificava, si incatenava, si lasciava trascinare dalla corrente degli inganni, che impediva alla sua energia di concederle un’ultima scintilla vitale. Nessuna pillola o veleno, nessuna lama o cintura. Acqua soltanto. Fiume che ribolle. Sorella morte. Fratello fiume, dai tentacoli che scelgono la vittima. Soltanto chi ha vissuto il fascino dell’avventura cupa e crudele di un viaggio nei labirinti della propria anima può capire il silenzio e l’atto di E. Gli altri possono solo assistere. Increduli. Parlano al vento, dicono, cercano a vuoto. Non pensano. Solo perché sanno chiedere. Non sanno pensare. Ebeti scrutano increduli i rantoli della psiche di un altro. Non pensano e si affliggono. Non sanno decidere. Piangono e subiscono e si vedono coperti di colpe.
Non sei solo
Recentemente l’OMS ha dichiarato: Nei prossimi 12 mesi si stima che oltre 20 milioni di persone tenteranno il suicidio. Più di 1 milione avrà successo. Molti altri finiranno in ospedale, bendati o intubati. Qualcuno tirerà un sospiro di sollievo, pronto a ricominciare. Altri, vittime dell’insuccesso, continueranno la loro vita con problemi di salute, nuovi e non previsti, amari e permanenti, i danni cerebrali per primi. Eppure tutti avevano deciso di farla finita con la vita. Gli esperti dicono che nel suicidio bisogna tentare 16 volte prima di avere la certezza di farcela. Non tutti concordano su quel numero e indicano valori tra 8 e 12. Ognuno dice la sua. Anche l’ISTAT si pronuncia e propone 6 tentativi. Sono gli esperti quelli che rovinano il mondo, i maghi delle previsioni, i guru della statistiche. Giocano sui numeri della morte. Negli ultimi 50 anni il tasso di suicidi è aumentato di oltre il 50%. Che differenza farebbe al pianeta, se 20 milioni di persone all’anno, solo per la metà del tempo che avevano trascorso a pianificare la loro morte facessero qualcosa di diverso? Come portarle a questo passo? Come pensare di farlo? Penso a tutte le persone che in questo preciso istante prendono in considerazione il suicidio. Le guardo. Le osservo. Le studio. Vedo la loro voglia di farla finita. Chi sono? Esseri che forse domani non ci saranno più? No. Guerrieri nella loro impari battaglia per la morte, sconfitti dalla vita, doloranti e coperti di ferite, impotenti e rovinati. Immagino il loro risveglio in un letto, condannati a dipendere dagli altri. Mi spaventa la loro leggerezza: per morire hanno scelto modo e tempo sbagliati. Perché così fragili e incapaci di reagire ai loro problemi? Mi tormenta che siano giovani e soli e lasciati a se stessi. Qualcuno li ha ascoltati ed è riuscito a capirli? Mi turba vederli uomini maturi, travolti dai propri errori e dagli inganni. Mi angoscia saperle madri gravide e disperate. Spavento. Disperazione. Angoscia. Mi sgomenta che abbiano cercato da soli la soluzione nell’alcol o nella droga. Contro la disperazione. Contro l’oppressione. Da soli. Soli con se stessi. Senza la forza di pensare. Sapere pensare. Non essere più soli. Avere se stessi come amico e compagno che ascolta e parla. Sapere pensare a se stessi prima di cercare una soluzione altrove. Non esiste soluzione senza averla pensata. Cercata. Voluta. Per questo penso con tristezza. Viviamo in un mondo che spinge milioni di persone a immaginare di volerlo lasciare, pronte a decidere di lasciarlo. Ora forse è più chiaro l’alito che mi ha spinto a scrivere queste pagine: molte persone, troppe, desiderano la morte, ma ne ignorano il significato. Non ci pensano, non ci ragionano sopra. Con gli altri non hanno mai discusso di morte. Hanno paura. La morte è respinta. Eppure la cercano. Si annegano nella passione e nella disperazione, nell’errore e nella paura. Paura di vivere. Ossessione. Paura del problema. Problema che non c’è. Fantasma. Idea. Problema degli altri, divenuto mio. Mi addolora l’ultimo post lanciato su Facebook da E., 15 anni, classe seconda all’Istituto Alberghiero; scrivo mentre cade la pioggia di maggio e lei si è buttata in Arno, il 9 novembre 2014. C’è tempo fino a stasera, woo, fino a stasera e basta. No, ’sta cosa ha un senso, davvero, non ho bevuto né niente e comunque domani si vedranno le differenze… lol (la risata nel gergo internet). I suoi pensieri svelati dai post dei giorni precedenti. Ancora non ho capito che cazzo ci sto a fare io qui, scrive il 5 novembre e il 2 novembre: Tutte le volte che il mio cuore fa certi scherzi, cosa? Vuoi battere per qualcuno? È il momento di chiuderlo in gabbia fino alla fine dei miei giorni. E. non è sola. Parla con se stessa, ha scoperto di esistere. Parla al suo cuore: Batti per qualcuno? Che scherzo è, meglio metterti in gabbia. E. vuole parlare al suo cuore. È incapace. È acerba per saperlo fare. Nessuno ancora gliel’ha insegnato. Respinge il dialogo. Respinge il cuore e i sentimenti e la delusione che le bruciano dentro. Chiude il cuore in gabbia, fino alla fine dei suoi giorni. Magico istante di lucidità. Breve ma prezioso momento, in cui la luce della ragione rischiara appena il buio che l’avvolge. Barlume. Accenno. Indizio. Attimo da prendere al volo, in cui decidere in un tempo infinitesimo, in una frazione a lei sconosciuta se adagiarsi sul fondale e confondersi con le acque e attendere la morte dell’anima o afferrarlo e trasformarlo in una misteriosa energia che le ridoni il respiro. Respiro vitale. Aria. Acqua. Fuoco. Imprigionato, il cuore non ha saputo dirle che era lei, che si umiliava, si mortificava, si incatenava, si lasciava trascinare dalla corrente degli inganni, che impediva alla sua energia di concederle un’ultima scintilla vitale. Nessuna pillola o veleno, nessuna lama o cintura. Acqua soltanto. Fiume che ribolle. Sorella morte. Fratello fiume, dai tentacoli che scelgono la vittima. Soltanto chi ha vissuto il fascino dell’avventura cupa e crudele di un viaggio nei labirinti della propria anima può capire il silenzio e l’atto di E. Gli altri possono solo assistere. Increduli. Parlano al vento, dicono, cercano a vuoto. Non pensano. Solo perché sanno chiedere. Non sanno pensare. Ebeti scrutano increduli i rantoli della psiche di un altro. Non pensano e si affliggono. Non sanno decidere. Piangono e subiscono e si vedono coperti di colpe.
Alcune verità sull’eutanasia
Il 5 luglio 2013, in una nota apparsa sul sito pro-life americano “National right to life news”, il dott. Peter Saunders, ex chirurgo e amministratore delegato dell’organizzazione britannica Christian Medical Fellowship, cui sono associati numerosi medici e studenti di medicina, ha analizzato l’ideologia che sta alla base della cultura dell’eutanasia. Alla luce di numerosi fatti emersi nei Paesi che l’adottano e in quelli che hanno attivato il loro cammino verso la morte assistita, ha indirizzato la sua preoccupazione sulla progressiva incentivazione dei media britannici in favore della morte assistita. Il “Sunday Times”, ad esempio, ha trasmesso un documentario per promuovere e divulgare il suicidio assistito proposto dalla clinica Dignitas di Zurigo, mentre il famoso scrittore Terry Pratchett, malato di Alzheimer dal 2007 è stato scelto dalla BBC per presentare alcuni documentari sulle pratiche di eutanasia in Europa e facilitare l’adesione del pubblico all’idea suicida. La promozione dei programmi di suicidio di Dignitas va in realtà considerata un esempio marginale, quasi insignificante rispetto alle verità tenute sotto chiave dai Paesi europei che praticano l’eutanasia, dalle società che operano nel business della morte e da medici, infermieri e operatori che ruotano attorno alla frenesia e all’incontenibile desiderio di svanire dalla faccia della Terra in fretta e come si deve. È noto che suicidio assistito ed eutanasia sono illegali in tutti i Paesi europei eccetto i Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Svizzera (quattro dei 43 Stati europei). Il 20 gennaio 2011 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che, se da un lato vi è un diritto umano al suicidio, dall’altro lo Stato non ha alcun obbligo di fornire ai cittadini i mezzi per suicidarsi: di questo non ha parlato la BBC nel suo programma.
Il 5 luglio 2013, in una nota apparsa sul sito pro-life americano “National right to life news”, il dott. Peter Saunders, ex chirurgo e amministratore delegato dell’organizzazione britannica Christian Medical Fellowship, cui sono associati numerosi medici e studenti di medicina, ha analizzato l’ideologia che sta alla base della cultura dell’eutanasia. Alla luce di numerosi fatti emersi nei Paesi che l’adottano e in quelli che hanno attivato il loro cammino verso la morte assistita, ha indirizzato la sua preoccupazione sulla progressiva incentivazione dei media britannici in favore della morte assistita. Il “Sunday Times”, ad esempio, ha trasmesso un documentario per promuovere e divulgare il suicidio assistito proposto dalla clinica Dignitas di Zurigo, mentre il famoso scrittore Terry Pratchett, malato di Alzheimer dal 2007 è stato scelto dalla BBC per presentare alcuni documentari sulle pratiche di eutanasia in Europa e facilitare l’adesione del pubblico all’idea suicida. La promozione dei programmi di suicidio di Dignitas va in realtà considerata un esempio marginale, quasi insignificante rispetto alle verità tenute sotto chiave dai Paesi europei che praticano l’eutanasia, dalle società che operano nel business della morte e da medici, infermieri e operatori che ruotano attorno alla frenesia e all’incontenibile desiderio di svanire dalla faccia della Terra in fretta e come si deve. È noto che suicidio assistito ed eutanasia sono illegali in tutti i Paesi europei eccetto i Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Svizzera (quattro dei 43 Stati europei). Il 20 gennaio 2011 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che, se da un lato vi è un diritto umano al suicidio, dall’altro lo Stato non ha alcun obbligo di fornire ai cittadini i mezzi per suicidarsi: di questo non ha parlato la BBC nel suo programma.